Questo blog è dedicato a chi cerca un brivido rapido e immediato, a chi ha poco tempo da dedicare alla lettura. In queste pagine verranno pubblicate brevi storie horror e creepypasta. Buon divertimento!
IL PARCO
Non vedevo l’ora di andare a quel nuovo grande parco di divertimenti, ero ancora piccolo ed era la prima volta che i miei mi portavano in un luogo così. Le mie aspettative erano altissime, soprattutto per via dei racconti continui dei miei amici che erano già stati in qualche parco di divertimenti. Quando arrivammo parcheggiammo la macchina in un prato, non era un vero e proprio parcheggio asfaltato. Successivamente ci dirigemmo verso la biglietteria e papà mostrò dei buoni che aveva ricevuto al lavoro, li avevano dati a tutti gli operai e lui era il primo ad usufruirne. La cassiera aveva un’aria stanca e svogliata in contrasto con il bellissimo ingresso che ci trovavamo davanti. La faccia enorme di un pagliaccio conteneva un ragazzo che ci aspettava per strappare i biglietti. Stranamente eravamo gli unici visitatori ma pensai che qualcuno fosse già dentro e che noi fossimo arrivati molto dopo l’apertura.
“Buongiorno e benvenuti.” Disse il ragazzo in tono monocorde. Dovevano aver avuto un brutto inizio di giornata il ragazzo all’ingresso e la cassiera. Non ci pensai molto e insieme a mia sorella mi diressi verso l’interno del parco. I nostri genitori si tennero un po’ a distanza ma tenendoci sotto controllo. Eravamo troppo piccoli per le montagne russe così passammo direttamente ai percorsi interattivi. La cosa strana era che per ogni attrazione c’era una lunga fila di persone che stavano in silenzio e con le facce tristi. Metteva i brividi sentire soltanto il rumore delle ruote sui binari dell’ottovolante o il movimento delle altre giostre. Nessuna musica faceva di sottofondo, nessuna parola veniva pronunciata dalle migliaia di persone che salivano tristemente sulle attrazioni, scendevano e si mettevano in coda da un’altra parte. Non si provava gioia in quel parco nemmeno quando passò il clown che doveva essere la mascotte. Avevo sentito che le mascotte dei parchi erano sempre allegre ma questa non lo era. Fumava una sigaretta che per poco non incendiava i suoi grossi guanti. La sua grossa faccia identica a quella dell’ingresso assumeva espressioni proprie. Non era un costume come poteva essere topolino, era una vera faccia. Non tentai neanche di avvicinarmi, la sua tristezza era contagiosa. Ci allontanammo e ci infilammo in una delle file per un trenino panoramico. Mio padre chiese all’uomo che avevamo davanti a che ora chiudesse il parco e se era possibile uscire prima visto che a noi non piaceva.
“Oh, il parco è chiuso da decenni ormai. Per quanto riguarda l’uscita se la scordi. L’unico modo per rivedere il mondo esterno è salire sulle giostre. Dall’alto, per un secondo, potrà vedere la vita. Da qui non si esce.”
A quelle parole iniziammo a piangere. Quella gente stava facendo la fila soltanto per vedere il mondo esterno al parco; un parco chiuso da decenni ma ancora in funzione. Era impossibile. Ci dirigemmo tutti e quattro verso una palizzata in bamboo che delimitava il confine del parco. Mio padre estrasse il seghetto dal suo coltellino svizzero e iniziò a tagliare il duro legno. Arrivò sera, si era più volte dato il cambio con la mamma e alla fine aveva tagliato un tronco del diametro di almeno venti centimetri. Venne notte fonda quando riuscì a tagliarne un altro. Io e mia sorella ci infilammo e sgattaiolammo fuori. Mamma e papà tagliarono ancora fino al mattino. Avevano le mani piene di bolle sanguinanti e di calli. Passarono a fatica attraverso il varco che si erano creati; prima mamma e poi papà. Eravamo salvi ma lo stesso non poteva dirsi per le povere persone condannate a guardare la vita vera dalla cima di una giostra di quel girone infernale.
STRESS
L’auto procedeva a passo sostenuto, il motore non era affaticato nonostante la vettura fosse abbastanza vecchia. Era stata acquistata pagando in contanti qualche giorno prima. Il prezzo era stato fissato a mille euro ma l’uomo che ora la guidava ne aveva pagati duemila in più. Tremila euro per un’auto che non ne valeva la metà, un vero affare. L’uomo si era subito messo a contare il denaro, aveva abbassato la fronte concentrato per aprire la busta di plastica trasparente che conteneva la somma. Era chiusa piuttosto bene, faceva pensare che l’acquirente avesse già accantonato i soldi e che non avrebbe sborsato ne più ne meno del previsto. Il colpo giunse nel centro della fronte, un sibilo senza esplosione che disegnò una sorta di diadema indù appena sotto l’attaccatura dei capelli. Rimettendo la pistola nella fondina che teneva legata al torace l’uomo raccolse la busta con i tremila euro, applicò sulle portiere due adesivi che recitavano “vettura di cortesia”, salì in auto e si dileguò.
Il viaggio era ancora lungo ma sarebbe stato senza dubbio tranquillo, aveva fatto attenzione a ogni dettaglio e non aveva lasciato tracce dietro di sé. A casa dell’uomo da cui aveva acquistato la macchina non aveva toccato nulla, non era nemmeno entrato veramente in casa, erano rimasti nel cortile sul retro e nessuno aveva visto niente. Ne era certo. Ora proseguiva facendo attenzione a non destare sospetti, non erano quasi permessi errori in quella guida. La velocità superava di poco il limite consentito in autostrada ma era un viaggio che percorreva quotidianamente, non ci sarebbero stati intoppi. Una pattuglia della polizia stradale era ferma ad esaminare per qualche futile motivo un tir. L’uomo sorrise vedendoli e procedette nel suo viaggio.
Quella mattina si era alzato prima dell’alba, si era affacciato alla finestra del suo appartamento e aveva sorseggiato lentamente un caffè macchiato con un goccio di latte freddo. Dopo la colazione era salito in auto ed era andato verso il suo posto di lavoro. Prese la statale e procedette fino a circa metà strada. Sulla destra c’era un parcheggio di un supermercato che stava per aprire, nonostante fosse ancora presto le auto parcheggiate erano già molte e molti clienti si erano accalcati alle porte scorrevoli non ancora aperte per aggiudicarsi l’ultimo modello di smartphone prima degli altri. L’uomo lasciò la sua auto nel parcheggio e andò a piedi verso l’indirizzo che aveva trovato sulla pagina del quotidiano che riportava gli annunci per le auto usate. In meno di dieci minuti era giunto a destinazione e come aveva sospettato l’uomo era già sveglio e attivo da un pezzo. Di solito le persone più avanzano con l’età e più diventano mattiniere. Aveva acquistato l’auto senza che il tizio facesse troppe domande dopodiché lo aveva freddato e se n’era andato.
Mancavano ancora una decina di chilometri alla sua destinazione ma era tranquillo, nulla sarebbe andato storto. Parcheggiò l’auto e scese. Entrò nell’edificio che ospitava gli uffici nei quali lavorava e non timbrò l’ingresso. Nell’edificio erano presenti telecamere a circuito chiuso che però il sabato sera avevano smesso di funzionare. Ovviamente era stata opera sua ma nessuno sarebbe mai arrivato a scoprirlo. Quando stava per arrivare l’ora dell’inizio delle attività andò a strisciare il badge e registrò il suo ingresso come aveva registrato ogni lunedì per molto tempo. Poi si mise a sedere e iniziò a lavorare.
Entrò il primo collega, lo salutò con sufficienza e si diresse a prendere un caffè. Stessa cosa fecero gli altri e infine il capo. L’uomo si alzò verso le dieci e si diresse tranquillamente verso l’ufficio del principale. Entrò e si sedette alla scrivania poi iniziò a parlare.
“In questi ultimi giorni sono venuto a conoscenza di una cosa.” esordì
“Te ne avrei parlato tra poco, non pensavo che la notizia fosse già trapelata e mi dispiace per come lo sei venuto a scoprire.”
“Fa bene a dispiacersi.” rispose l’uomo. Lo sguardo era diventato quello di una tigre che si prepara ad assalire la sua preda.
“Ti prego di calmarti, voglio essere chiaro, non c’è nulla di personale.” continuò il capo. Era un discorso che aveva fatto già parecchie volte e ogni singola parola suonava come una presa in giro.
“Oh, io sono calmissimo. Non sono mai stato così tranquillo.”
Infilò la mano nel cappotto che stava ancora indossando dalla mattina ed estrasse la pistola. Prima che il capo riuscisse a realizzare quello che stava accadendo si trovò un foro in fronte, esattamente come quello del vecchio che gli aveva venduto l’automobile. Il sangue schizzò per la maggior parte alle spalle della vittima disegnando un’orrenda figura informe sul muro bianco.
Nessuno aveva sentito niente, il capo non era nemmeno caduto, se fosse stramazzato al suolo avrebbe provocato un gran rumore visto le sue dimensioni non proprio atletiche. L’uomo si pulì con un paio di salviettine umidificate che aveva in un pacchetto tascabile e tornò nell’ufficio dove gli altri colleghi stavano lavorando. Andò in fondo alla sala e chiuse a chiave l’uscita. Si avvicinò al primo collega, quello che lo aveva sempre trattato male e lo uccise. Passò al secondo e poi al terzo e via via finché rimase l’ultimo. Aprì la porta, scese le scale e salì sull’automobile. Era stato un lavoro pulito, veramente ben fatto. Lasciò l’auto in riva al fiume, gettò la pistola e la busta sigillata con i soldi nell’acqua. Si cambiò le scarpe, ne mise un paio di due numeri più grandi che aveva da tempo in casa (un regalo di compleanno sbagliato) e fece attenzione a lasciare delle impronte fino all’asfalto. Lì proseguì per qualche decina di metri camminando in direzione opposta alla sua destinazione. Le auto che passavano lo avrebbero scambiato senza dubbio per uno dei tanti che pur di risparmiare raggiunge a piedi le sue mete. Si cambiò le scarpe quando vide che le altre non lasciavano più nessun tipo di impronta e si incamminò verso il parcheggio del centro commerciale. Recuperò la macchina e tornò sul posto di lavoro. Il suo posteggio era il meno in vista (forse rappresentava il suo valore per l’azienda) e in quel caso gli risultò piuttosto comodo. Era passata circa un’ora. L’uomo telefonò ai carabinieri per denunciare il fatto. La sua voce al telefono era disperata. Aveva dichiarato che un rapinatore era entrato e aveva ucciso tutti uscendo con dei contanti frutto di qualche consegna pagata in contrassegno. Disse che si era nascosto in bagno e non era uscito fino a quando non aveva sentito l’auto partire, si era affacciato sbirciando dal davanzale che dava sulla strada e aveva visto un’auto nera piuttosto vecchia andare via in velocità.
Gli inquirenti trovarono l’auto, delle impronte e nulla più. Dopo giorni di ricerche fu fermato un pregiudicato, uno che era anche un ex collega del vero colpevole ed era stato licenziato per i suoi comportamenti inappropriati e per mobbing nei confronti di tutti i colleghi.
L’alibi non reggeva e il caso venne chiuso.
La vendetta era compiuta.
AU PAIRE
CAPITOLO 1
Quando Paris entrò per la prima volta in quella casa, all’apparenza del tutto normale, non si aspettava certo che una famiglia del genere potesse esistere
Quelle mura erano così simili a quelle tra le quali viveva che le sembrò quasi strano trovarsi in un paese straniero. Venne accolta calorosamente dal signor Waltz, un uomo sulla quarantina e dall’aria provata. La stretta di mano era energica ma non eccessivamente, non assomigliava alle mani callose di chi fa lavori pesanti, forse era un impiegato o qualcosa del genere
Il signor Waltz la aiutò a portare le valige in quella che sarebbe stata la sua stanza. Le diede le prime indicazioni sulla vita in quella casa e se ne tornò con la testa bassa al piano inferiore
Mentre Paris sistemava le valige e tastava il materasso sul quale avrebbe dormito iniziarono i rumori.
Al piano inferiore era entrata quella che presumibilmente era la moglie di Waltz
La voce della donna era tutt’altro che soave e per quanto capiva Paris stava rimproverando figlio e marito contemporaneamente e per due motivi diversi. “incredibile” pensò Paris
Doveva essere stata una giornata particolarmente storta per la donna.
Quello che Paris non sapeva, però, era che non era storta soltanto una giornata per la signora Klaudia Waltz. Era la vita intera ad essere storta.
CAPITOLO 2
Per buona educazione Paris decise di scendere e presentarsi alla signora Waltz.
Quando raggiunse la donna fu folgorata dal suo sguardo. Un misto di odio e disprezzo per niente celato. Uno sguardo giudice che senza vergogna emette verdetti nei confronti di chi si trova di fronte.
Paris sperò che fosse una brutta giornata e che l’indomani sarebbe migliorato ma le sue speranze furono disattese già all’ora di cena.
Quando entrò nella sala da pranzo si mise ad apparecchiare seguendo attentamente le istruzioni del signor Waltz. Klaudia cucinava e ogni tanto si affacciava e controllava che tutto si svolgesse secondo suo gradimento. La situazione era imbarazzante. Paris non osava parlare oltre che per le sue difficoltà con la lingua anche per la soggezione che le incuteva la signora Waltz. Non era in sala eppure era presente, il suo sguardo aleggiava su di loro e l’unico che sembrava non curarsene era il piccolo Ben, cinque anni. A lui non importava che sua madre fosse così minacciosa. Lui stava bene giocando e facendo capricci.
Klaudia entrò in sala da pranzo con un pentolone di stufato che Paris non aveva mai visto in vita sua. Un piatto tipico probabilmente. Mangiarono in religioso silenzio. Ogni boccone masticato da Paris era supervisionato da Klaudia. Sembrava che contasse il numero di volte che il cibo veniva masticato, il numero di bicchieri d’acqua versati, se osava allungare le mani sulla birra. “Parlaci di te.” ordinò improvvisamente Klaudia. Non era un invito, era un vero e proprio comando. Quell’atteggiamento autoritario e fermo lasciò spiazzata Paris che avrebbe potuto giurare di intravedere negli occhi della signora Waltz uno scintillio di soddisfazione.
“Ho studiato in un liceo vicino a Londra, vivo con la mia famiglia e sono loro ad avermi accompagnata. Tutto qui.” non voleva esporsi troppo, almeno non subito. “Molto bene, aiutami a sparecchiare.” Paris si alzò e sparecchiò insieme a Klaudia che non smetteva mai di guardarla. Il marito si occupava del bambino facendogli fare esattamente quello che voleva. In quella casa così ordinata, bella e accogliente Paris si sentiva come in una gabbia appesa nel vuoto e in balia del freddo e della pioggia come I prigionieri dei pirati. Sapeva che sarebbe stata lì dentro non più di un anno e cercò di farsene una ragione ma pensò “in un anno può succedere di tutto.” non aveva idea di quanto fosse vero.
CAPITOLO 3
“APRI QUELLA DANNATA PORTA!!” Paris sobbalzò, si era presa una pausa dopo aver sistemato il bucato, era da qualche settimana ormai che si trovava in quella casa e la situazione non aveva avuto cambiamenti. La signora Waltz era in perenne stato di irritazione. Pareva che l’unico a non subirne le conseguenze fosse il bambino ma Paris non ne era sicura. “Apri ho detto!” Paris aprì. Klaudia piombò nella stanza brandendo un lenzuolo come fosse un arma di fronte al viso della ragazza. “E’ così che si piegano? Rispondi! E’ così che si piega la roba degli altri??” Paris stava scoppiando in lacrime. Non sapeva perchè quella donna la stesse aggredendo. “Sta a vedere come si piega.” glielo mostrò. “Ora prova tu.” Paris in lacrime obbedì. Klaudia mostrava senza vergogna la sua esaltazione. Le stava facendo capire chi comandava in quella casa. Sorrise e se ne andò.
CAPITOLO 4
La situazione continuava a peggiorare, ormai Paris era vittima di angherie da parte di Klaudia. Quella donna odiava. Odiava nel più spregevole dei modi, odiava con gli occhi. Ogni volta che riusciva ad umiliare qualcuno ne gioiva e traeva l’energia per continuare ad infierire. Paris stava per esplodere, tra poco era sicura che avrebbe raggiunto il limite e prese una decisione che non si sarebbe mai aspettata prima di partire per la Germania: tornare a casa prima del tempo. Di comune accordo con I suoi genitori si fece coraggio e decise di dare la notizia ai coniugi Waltz. Nessuno disse niente, il marito perchè sottomesso alla donna, lei perchè aveva vinto. Certo che vincere per abbandono non è la stessa cosa. Aveva ancora qualche settimana per trionfare completamente. E nel modo che lei preferiva.
CAPITOLO 5
“Cara, vuoi seguirmi? Devo parlarti e mostrarti una cosa.” Cara? Era così che l’aveva chiamata? Non aveva frainteso la parola? Infondo era più probabile che qualche termine non venisse capito piuttosto che quella donna l’avesse chiamata ‘cara’. In ogni caso andò e Klaudia iniziò a parlarle. “Sai, è più di un mese che sei con noi e devo dire che sei una ragazza forte. Molto più forte delle altre che sono state qui nostre ospiti. Questo per me è un problema e credo che tu lo abbia capito fin dall’inizio che non mi vai molto a genio. Però mi servi.” “Signora Waltz, ormai ho preso la mia decisione, tra qualche giorno me ne andrò.” rispose Paris. Per una volta Klaudia non l’aggredì. “Lo so cara, lo so. Tu hai preso la tua decisione come è giusto che sia.” si stavano dirigendo in cantina. “Dovresti darmi una mano a portare di sopra una cassa di birre che è giù in cantina, è troppo pesante per la mia schiena.” Paris acconsentì. Scesero.
CAPITOLO 6
“Vedi, tutte le ragazze che sono state nostre ospiti erano autosufficienti, vivevano da sole e avevano perso i genitori. Forse era questa la loro debolezza ma nessuna è durata a lungo quanto te.” Paris era confusa. Da quello che le avevano detto quelli dell’agenzia le ospiti precedenti avevano tutte superato l’anno. Perchè ora quella donna diceva che non erano durate nemmeno un mese e mezzo? “Dov’è la birra?” “Non c’è nessuna birra.” Klaudia la colpì e Paris vide soltanto buio.
CAPITOLO 7
Era legata a una colonna. Quando si svegliò vide di fronte a sè Klaudia, raggiante con un sorriso sadico sulle labbra. “Sai, noi abbiamo un problema. E il problema sono I tuoi genitori che ti stanno venendo a prendere. L’abitudine che abbiamo è di uccidere le nostre ospiti e in seguito continuare a scrivere lettere che confermano quello che vogliamo che si dica. Già, parlo al plurale. Anche mio marito è coinvolto. Diciamo che a me piace guardare, non mi sporco le mani.” Paris provò a parlare ma era imbavagliata e non poteva rispondere. I suoi genitori sarebbero arrivati entro qualche giorno. Era sicura che per quella data Klaudia l’avrebbe tenuta in vita. Non si sbagliava.
CAPITOLO 8
Il padre e la madre di Paris varcarono il confine con la Germania una mattina di autunno. Procedevano tranquillamente verso la loro meta ignari del fatto che loro figlia fosse in pericolo. Klaudia li aspettava al varco, sapeva perfettamente quando sarebbero arrivati, con il cellulare di Paris aveva inviato un messaggio alla madre fingendosi la figlia e chiedendo per che ora avrebbe dovuto aspettarli. Arrivarono nel primo pomeriggio e Klaudia fu accogliente come non lo era stata mai. Chiese in un inglese elementare se erano intenditori di vini e li fece scendere in cantina dove diceva di tenere una botte di vino pregiatissimo, un vino arrivato direttamente dall’Italia per merito di suo marito che commerciava con l’estero. Scesero. Davanti il signor Waltz che parlava cordialmente in inglese con il padre di Paris, dietro le due donne che li seguivano. Di colpo le luci si spensero. Klaudia colpì in testa la madre di Paris che rotolò giù dalle scale di pietra facendo cadere anche i due uomini. Le luci si riaccesero. Il signor Waltz si alzò e premette il piede contro il petto del padre di Paris che non potè far altro che dirigere il suo sguardo verso una colonna alla quale era legata sua figlia. Il suo volto si arrossò un po’ per il dolore e un po’ per la rabbia che gli scorreva nelle vene. Afferrò il piede che lo teneva fermo e lo strattonò facendo cadere il signor Waltz. Si alzò in piedi dolorante ed estrasse la pistola d’ordinanza facendo fuoco contro la donna che stava per colpire sua moglie con un’accetta. Quando il signor Waltz, che cadendo aveva picchiato la testa, si riprese e vide sua moglie morta pianse amaramente.
CAPITOLO 9
Quando la polizia tedesca arrivò trovò la donna morta, il marito in stato confusionale e la famiglia di inglesi che aveva telefonato. La ragazza era ridotta a uno straccio. Guardava il padre che ricambiava il suo sguardo amorevolmente. Era sempre stato severo con lei ma non per questioni futili. Il caso fu catalogato come legittima difesa e alla famiglia fu permesso di tornare nel Regno Unito. Il piccolo Ben fu affidato a una zia mentre il signor Waltz fu ricoverato in una clinica psichiatrica. In quella cantina furono trovati sei corpi, alcuni dei quali già scheletri. Tutte le ragazze che erano state ospiti in quella casa. Paris sognò ancora quella donna, sognò ancora quella prigionia. Non si sarebbe mai più lamentata di avere dei genitori severi. Mai più.
CUORE
Piper adorava studiare, adorava leggere e adorava conoscere. Adorava in particolar modo i classici, non c’era citazione che non conoscesse e che non tentasse di far apprezzare ai suoi amici (che il più delle volte avevano ben altri pensieri) o a chiunque mostrasse un briciolo di interesse per quelle letture. Per non risultare seriosa o fastidiosamente saccente (e soprattutto per non peccare di superbia) vestiva in modo eccentrico e si comportava, in alcune occasioni, rispecchiando lo stile esuberante del suo abbigliamento.
L’università, la conoscenza delle lingue antiche e la curiosità la portarono a vivere un incubo che superava di gran lunga la sua seppur fervida immaginazione.
Il suo corso di studi l’aveva condotta in un viaggio in Italia. Sostanzialmente si trattava di un lavoro di archivio in una vecchia biblioteca e di un’attività di archeologia in supporto ad un’equipe specializzata. Piper era emozionata, mentre presentava il biglietto all’aeroporto di Heathrow e si preparava ad imbarcarsi per la città eterna (o meglio, i suoi dintorni) aveva stampato in volto il sorriso più grande che la sua bocca potesse presentare. Nella sua mente stava realizzando il suo sogno più bello, avrebbe toccato con le sue mani i cocci di qualche vaso passato per le mani di chissà quale persona e non più toccato per migliaia di anni. Sarebbe stata una stretta di mano temporale, un contatto che attraversava i secoli e per volere di un misterioso disegno proprio lei sarebbe stata la prescelta.
Atterrò un paio di ore dopo e corse subito a sistemare le sue valige e a pernottare. Il mattino successivo si svegliò di buon’ora e si recò agli scavi seguendo il suo tutore che aveva accompagnato lei ed altri studenti. L’attività si sarebbe svolta prevalentemente nelle prime ore del mattino mentre nel pomeriggio si sarebbero spostati tutti per il lavoro di archivio. A Piper venne assegnata una piccola zolla di terreno nella quale scavare delicatamente. Il suo spazio era poco più di un metro quadrato e pareva non contenere altro che sassi e sabbia. Mentre alzava la polvere con il suo pennellino Piper continuava a sperare di rinvenire qualcosa e pregava tra sé e sé che accadesse presto. Avvolta nel torpore dei suoi pensieri non si accorse che il suo piccolo piccone aveva trovato resistenza. Poteva trattarsi di un sasso ma il rumore che aveva prodotto non era quello dello scontro tra il metallo e la pietra. Era diverso, più ovattato. Prese il pennellino e per qualche strano motivo non disse nulla a nessuno. Spolverando vide un panno quasi completamente decomposto che doveva essere stato nero prima che la polvere cambiasse il suo colore per sempre. Avvolta nel panno c’era una piccola boccia color ambra. All’interno si vedevano delle scritte latine. L’oggetto era qualcosa di bellissimo e straordinariamente complesso. L’incisione era stata fatta misteriosamente all’interno di esso e non c’erano segno di apertura. Se ai tempi dei romani ci fosse stata la possibilità di stampare con plastica di quel colore si sarebbe potuto pensare a una lavorazione di quel tipo ma ovviamente non era possibile. Quell’ambra, antica resina preistorica fossilizzatasi nei secoli, era un pezzo unico ed era inciso dall’interno. Piper lesse quelle incisioni e i suoi occhi iniziarono a ribaltarsi. Cadde all’indietro come in preda a una forte crisi epilettica e perse immediatamente conoscenza
Quando riaprì gli occhi era in una pozza d’acqua. Una pozza che sembrava più una piscina. Doveva essere una speciale maniera di soccorso dell’ospedale locale ma appena si guardò intorno vide che si trovava al centro di un cortiletto. Delle piante erano poste agli angoli e il cortile era circondato da quattro pareti ben intonacate e decorate. Si alzò in piedi e rabbrividì per il contatto dell’aria sulla pelle bagnata. La piccola piscina non era molto profonda e le bastò alzare la gamba di mezzo metro per issarsi fuori. Una volta uscita si guardò intorno. Chi era stato l’animo gentile che l’aveva accolta in quella dimora? Che cosa le era successo quando aveva letto l’incisione? Non riusciva a ricordarsi che cosa ci fosse scritto e si rassegnò sapendo perfettamente che il manufatto le era stato portato via. Il fondo della minuscola piscina era decorato con un mosaico che rappresentava una donna seduta in riva a un fiume. La qualità dell’opera era notevole e Piper si concentrò a guardarla. Un rumore di cocci la fece trasalire. Dietro di lei una ragazza aveva fatto cadere una brocca e stava scappando all’interno dell’abitazione. La cosa che lasciò Piper di stucco fu che la ragazza era vestita con una semplice tunica bianca e che gridava in latino.
Nel giro di pochi minuti intorno a lei, fradicia e infreddolita nella piccola piscina nella quale si era svegliata, giunsero altre persone. Qualche uomo vestito in modo semplice, una donna dall’abbigliamento decisamente più patrizio e dei bambini che la guardavano incuriositi. La donna parlò alla ragazza a bassa voce poi fissò negli occhi Piper per qualche istante. Il gelo che provava a causa del contatto della sua pelle umida con l’aria si intensificò. Lo sguardo di quella donna non era per niente quello gentile che credeva che fosse, era lontano dalla sua idea che le civiltà del passato fossero migliori di noi. Di colpo la sua ammirazione per loro si sgretolò. Erano identici alle persone del ventunesimo secolo, erano schifosamente banali e non c’era nulla di nobile in quegli sguardi. Forse qualcuno che aveva scritto raccontandone (e che faceva parte di quella società) aveva addolcito descrizioni e aveva cercato (con successo) di far apparire ricche in spirito quelle persone. Ma uno sguardo come quello di quella donna non aveva niente di dolce, neanche lontanamente. Mentre pensava a queste cose due mani le si infilarono sotto le ascelle e la sollevarono di peso spaventandola. Erano mani forti, callose e fredde. Due schiavi l’avevano presa e la stavano portando via sotto lo sguardo attento e quasi divertito della donna che li comandava. La consegnarono alla ragazza che aveva dato l’allarme e che ora si doveva occupare di lei. La prese per il braccio saldamente e la trascinò in una stanza che sembrava più una stalla. Le strappò i vestiti e la lasciò lì ad asciugare al fuoco mentre lei se ne andava in un’altra stanza. Quando tornò aveva in mano delle vesti come le sue e le disse di indossarle. Piper pensò che rispondendo avrebbe in qualche modo stupito la giovane schiava ma non fu così. Non c’era niente di speciale nel parlare nella lingua che parlavano tutti. Indossò le vesti e si guardò abbassando la testa. Ora non c’era più nulla di speciale nemmeno in lei.
Piper aveva ancora i capelli umidi e stava cercando di asciugarli vicino al fuoco ma immediatamente le fu ordinato di recarsi dalla sua nuova padrona. Entrò nella stanza in cui si trovava e la vide splendida, voltata verso una finestra a guardare il panorama.
“Sei la nuova schiava, lo sai?”
“Lo so.”
Rispose Piper abbassando lo sguardo. In quell’abito si sentiva umiliata.
“Farai quello che ti si dice e non ti lamenterai.”
“Sì padrona.”
L’umiliazione procedeva e Piper sapeva per quale motivo la donna era rivolta verso la finestra. Sapeva che stava ridendo, sapeva che infondo ne godeva.
Di colpo una grande nostalgia la assalì. Avrebbe voluto abbracciare i suoi genitori, le sue sorelle, il suo piccolo carlino. Invece era lì, in quella casa. In quel momento stava odiando tutto ciò che aveva sempre amato. Non sapeva che le cose sarebbero soltanto peggiorate.
Passò una settimana, la più faticosa settimana che potesse immaginare. Sollevò pesi di gran lunga maggiori di quanto avesse mai sollevato prima, massaggiò il corpo di quell’arpia che l’aveva schiavizzata, le versò acqua calda nella vasca e la lavò, pulì, aiutò in cucina e fece mille altre cose. Ogni sera andava a dormire con la schiena a pezzi e il morale messo ancora peggio. Nelle poche ore che le erano concesse per riposare sognava di tornare a casa, nel suo tempo. Avrebbe venduto l’anima al diavolo pur di rivedere i suoi cari e i suoi amici. Senza pensarci, una notte, si svegliò e iniziò a pregare. Il latino era ormai entrato nella sua mente e la preghiera, imparata da piccola venne automaticamente tradotta in quell’antica lingua. Era una preghiera rivolta a Maria. Sarebbe stato l’inizio della sua sofferenza.
“Gesù, vi dico che ha nominato Gesù!”
La ragazza stava parlando sommessamente con i due schiavi che avevano portato via Piper dall’impluvium (la piccola piscina che serviva per raccogliere l’acqua piovana). Un occhio di Piper si aprì faticosamente e li vide vicini alla porta. Stavano bisbigliando qualcosa e la guardavano. Che cosa stava succedendo? Perché quei due erano lì? Smise di porsi domande inutili nel cuore della notte. Si riaddormentò girandosi sul fianco destro. Pochi istanti dopo (o forse anche un’ora, durante il sonno la cognizione del tempo è tutt’altro che precisa) si sentì sollevare dalle stesse mani che una settimana prima l’avevano consegnata alla schiavitù. Si svegliò spaventata e gridò. Un colpo forte alla testa le chiuse la bocca facendole morsicare la lingua. Quando riprese i sensi era al cospetto della sua padrona e accanto a lei un uomo dallo sguardo ancora meno umano di quello della donna stava impettito. Indossava un’armatura che gli copriva il petto e sotto quell’armatura una tunica rossa. Doveva essere un militare parecchio importante e le parti scoperte del suo corpo erano come le pagine di un libro che raccontava le sue numerose battaglie tramite il linguaggio delle cicatrici.
“Hai pregato Gesù.”
Disse l’uomo. Ecco perché era lì, ecco per quale motivo l’avevano portata da loro. Piper iniziò a tremare, non fu certo un segno di innocenza. Se in una qualsiasi aula di tribunale il colpevole di un omicidio avesse iniziato a tremare alla prima accusa sarebbe stato creduto immediatamente responsabile del delitto. Quello però non era un omicidio, quello che aveva fatto era recitare un’Ave Maria per consolare il suo cuore ormai distrutto dalla schiavitù. Non poteva neanche essere considerato peccato eppure…eppure era lì, già giudicata. Brucia all’inferno Ted Bundy. Non vedeva come altra soluzione se non quella di dire la verità.
“Sì, l’ho fatto. Ho pregato anche sua madre, la vergine Maria.”
“Tu non esisti, lo sai?”
Disse l’uomo. Non aveva considerato neanche una parola che era uscita dalla bocca di Piper, era come se non avesse mai parlato. Piper sapeva di non esistere, era piombata in un mondo che non era suo, sapeva come sarebbe andata a finire. Le lacrime le scesero dagli occhi. Sentì il loro sapore salato quando giunsero alla sua bocca.
“Nel tuo cuore c’è Gesù?”
Chiese l’uomo sogghignando.
Piper non rispose.
L’uomo ripeté
“Nel tuo cuore c’è Gesù??”
Ancora nessuna risposta.
Domandò per la terza volta e Piper si sentì come Pietro. Sarebbe stata zitta e avrebbe rinnegato per la terza volta oppure avrebbe detto di sì?
“NEL TUO CUORE C’E’ GESU’??”
Gridò l’uomo portando la mano alla spada che teneva nel fodero.
“SI!!!”
Rispose Piper a gran voce. Un gallo cantò, era quasi giunta la mattina.
L’uomo fece un gesto e due schiavi portarono Piper a lui.
“Legatela al tavolo.”
Ordinò. Loro eseguirono.
L’uomo si avvicinò con il pugnale alla mano. Tagliò la tunica bianca sul petto. La punta fredda della lama le mise la pelle d’oca. Poi il freddo fu sostituito da un calore denso e liquido che colava sul lato sinistro del suo corpo scendendo fino a toccare il tavolo. Un colpo di dolore e il freddo della lama le entrarono dentro, appena sotto il cuore. Perse conoscenza. Quando la riprese era ancora su quel tavolo e non credeva a quello che stava vedendo. Era impossibile che fosse ancora viva, come diavolo faceva ad essere ancora su quel tavolo mentre guardava quell’abominio di uomo che reggeva in mano il suo cuore? Era il suo, non c’erano dubbi, era ancora attaccato all’arteria principale e vide chiaramente un colpo di pugnale reciderla. Vide l’uomo che osservava nel cuore e lo sentì urlare lontanissimo:
“NON C’E’ GESU’ NEL TUO CUORE!”
D’un tratto si sentì sollevare, come se stesse levitando sdraiata. Era impaurita. Tentò di voltarsi e vide sé stessa su quel tavolo brutalmente martoriata. Stava volando verso il cielo ma non poteva, non voleva, non era quella la fine che doveva fare! Gridò. Un urlo straziante che non aveva avuto modo di emettere nemmeno con la lama nel petto. Urlò così forte che dovette chiudere gli occhi, così a lungo che non seppe per quanto, forse per quasi duemila anni.
Si ritrovò in una camera d’ospedale. Il suo insegnante era lì, accanto a lei e le teneva la mano. C’erano anche i genitori, avevano fatto un lungo viaggio non appena avevano saputo del malore della figlia. La loro primogenita era piombata in un coma profondo ed era un miracolo che si fosse svegliata.
Guardò suo padre negli occhi pieni di lacrime e gli disse che voleva tornare a casa.
Lui le strinse la mano e annuì. Piper seppe che c’era ancora amore nel mondo.
IL BACIO
Non ho mai creduto a fantasmi e spiriti maligni, mi sono sempre sembrate invenzioni buone solo per i film. L’anno scorso però ho cambiato radicalmente idea a riguardo. Stavo dormendo in camera mia quando sentii chiamare il mio nome. Era una voce profonda e attraente. Aprii gli occhi e vidi l’essere più ripugnante che avessi mai potuto immaginare. Era alto almeno tre metri e stava curvo su di me. Aveva un volto pieno di graffi e sangue e una lingua da serpente. Fece per allungare una mano rugosa verso la mia faccia. Io non potevo muovermi, ero completamente paralizzato. Poi improvvisamente sentii una voce di donna che gridava “Vai via demonio!”. L’essere scomparve all’istante in una nube di fumo e la donna venne a sedersi di fianco a me sul letto. Era la più bella donna che avessi mai visto. “Grazie!” riuscii a sussurrare. Lei si avvicinò e iniziò a baciarmi dicendomi “non è ancora il tuo momento. Tornerò quando sarà la tua ora.” poi sparì.
IL CUCCIOLO OBBEDIENTE
Sono legato a una sedia. Intorno al collo mi sembra di avere un collare o una catena. Che cazzo sta succedendo? Stanno entrando degli esseri terrificanti. Hanno il corpo da adulto e il volto da neonato. Questo misto fa ribrezzo e le loro espressioni da infante mettono i brividi. Ora uno ha iniziato a gattonare verso di me. Mi è venuto ad accarezzare i capelli. Grido di terrore e lui inizia a piangere con una voce che sembra quella di un animale agonizzante. Un grido che lacera le orecchie. Sono rivoltanti. Ora l’altro si avvicina a me camminando goffamente. Mi butta a terra e mi salta addosso. Mi mette le sue enormi mani al collo e inizia a sbattermi la testa per terra. Sto perdendo conoscenza. Li ho fatti arrabbiare. Non sono stato un cucciolo obbediente.
LA BAMBOLA
I coniugi Dawn avevano proprio una bella figlia. Era piccola e sempre vestita elegantemente. Sorrideva ma non parlava eppure per i suoi genitori non era così. Le altre persone presto li abbandonarono, erano troppo strani. Parlavano con quella bambola come se fosse figlia loro. Qualcuno denunciò la scomparsa della bambina alla quale la bambola somigliava così tanto. La polizia la trovò morta in soffitta chiusa in uno scatolone e vestita come una bambola.